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giovedì 19 ottobre 2023

"Con innocenza e purezza..."

 “Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte” recitava un passo dell’antico testo del giuramento di Ippocrate. Egli riteneva la capacità di lenire i dolori dell’uomo come i risultati di un’arte: l’Arte Medica. Molto probabilmente Ippocrate non voleva indicare delle “qualità morali” (valore forse assunto in epoca cristiana più tardiva), ma indicare dei principi dove la cura era il successo della corretta applicazione dell’arte, dove ciò che di scientifico e sperimentale si poteva ottenere viaggiava di pari passo alla sensibilità ed interiorità umana.

Conviene allora chiedersi quale sia il significato, il vero senso della “cura”.

In un mondo dove il titolo accademico assurge ad onore e non ad onere, l’esser “dottori” appare più uno status sociale che un impegno “ad esercitare l’arte”. Ci si rivolge, così, esclusivamente al lato materiale della questione, evitando qualsiasi altro coinvolgimento che superi la materia ed entri in dimensioni che, pur appartenendo all’uomo, risultano difficili sia da comprendere che da affrontare poiché occorre qualcosa che abbiamo da tempo rinnegato: il cuore e la sua sensibilità.

Vi è un grandissimo dibattimento sull’uso della parola “terapia” che è stata blindata solo nel contesto sanitario e solo chi è in tale ambito (spesso medici) è autorizzato al suo impiego; la stessa parola applicata ad altri ambiti (si pensi a “psico-terapia”) spesso viene banalizzata e considerata meno degna della sua applicazione squisitamente clinica perché, erroneamente, si pensa che quest’ultima sia frutto di una scientificità che non ammette contraddizioni.

Quindi, ad esempio, il fare ginnastica in una palestra non può essere “momento terapeutico” semplicemente perché effettuato da personale non sanitario, mentre chi esegue la medesima ginnastica in una sorta di ambulatorio (quindi in ambito sanitario) può avvalersi del termine (sempre che sia una figura professionale formata e legata a quell’ambiente). Non stiamo parlando di “manovre” condotte passivamente da un operatore sulla persona afflitta da dolore (per le quali occorre una preparazione teorico-pratica molto particolare), ma di movimento umano attivo e razionale, di esercizio fisico che, quasi con un indirizzo inventato ad hoc, diviene “esercizio terapeutico” che, se bene analizziamo a fondo ciò che viene proposto di quest’ultimo, non si trova una reale distinzione da quello eseguito in forma controllata e adattata in una palestra.

Si percepisce, cioè, che sia più onorevole (e socialmente si appare più “rilevanti”) indossare un camice bianco rispetto ad una tuta sportiva, dimenticando che il camice bianco, come usa dire un mio carissimo amico, lo indossa anche il macellaio.

In questa via confusa e tortuosa, non si comprende se l’osteopata possa o meno eseguir “terapia” così come un massaggiatore formato in uno dei tanti corsi dove non si richiede titolo universitario alcuno. Non disquisisco se ciò sia giusto o sbagliato (ho una mia personale opinione in merito, ma è ininfluente ai fini della discussione), ma voglio solo analizzare una visione piuttosto ristretta della “cura”. L’escamotage trovato per ovviare la questione è il classico tappo della falla: si parla di benessere e di trattamento, ma, per l’amor del cielo, evitiamo terapia !

Il lettore perdoni questa mia breve divagazione, ma credo sia utile per inquadrare la questione.

Nel caso dell’attività fisica, con molta probabilità, il tutto nasce da corsi di studio inadeguati e settoriali che mal rispecchiano l’obiettivo da raggiungere e con insegnamenti che non possono esser applicati nell’ambito di un’attività convenzionale stabilita da una società così classificante; inutile parlare di “elementi di riabilitazione”, “medicina fisica e riabilitazione” o “diagnostica per immagini” ad uno studente di scienze motorie se poi, nella realtà professionale, non potrà mai applicare tali concetti, così come non vi è nota di un’analisi della ginnastica (sia adattata che sportiva) negli studi di uno studente di fisioterapia il quale, spesso inutilmente e barcollando, si lancia nel settore (cercando, giustamente, un guadagno dignitoso). Nella società così strutturata, pertanto, il camice bianco ha valore ed esprime sicurezza, il resto del mondo che opera nel “benessere” ha più o meno la considerazione di un circense (che peraltro ammiro profondamente).

Il concetto di “cura”, però, ha radici molto più profonde e complesse di quanto si possa pensare e di ciò che la nostra società così frammentata sia nella mente che nelle competenze possa esprimere. Pensare che il termine “benessere” non appartenga alla “cura” è follia, così come è un atto di pazzia pensare di essere i soli a detenere il termine “terapia”. Se la “terapia” è somministrabile esclusivamente dalla classe medica od affine, quindi da coloro che acquisiscono la capacità professionale grazie a studi della “scuola di medicina”, è bene togliere da tale dipartimento le scienze motorie; inoltre, dato che pure la psicologia esegue “terapia”, ma non fa parte della scuola di medicina, sarebbe bene far chiarezza ulteriore sulla questione. Oppure, implicitamente, si ammette che una terapia è migliore (più efficace) dell’altra ?

Il caos, come si può notare, è evidente. La “cura”, però, è un concetto estremamente ampio che vede la propria definizione mal ristretta tra confini convenzionali tirati su spesso a scopo utilitaristico.

Nell’antica Cina, un medico che aveva molti malati non veniva pagato perché il suo compito era prevenire la malattia, indicando i giusti comportamenti da seguire, la corretta alimentazione ed avvalendosi di pratiche di igiene sia fisico che interiore. In quei tempi vi era una serie di pratiche fisico-meditative chiamate YangSheng (nutrire/coltivare la vita/principio vitale) che venivano inserite nella “terapia” che era indicata dal medico stesso, avvalendosi di esperti nel settore.

Non sto scrivendo che quella medicina sia migliore di altre (occidentale compresa), ma sto indicando un modo in cui la “cura” si esprime.

Non amo molto il termine “olistico” perché credo che sia utilizzato spesso in modo improprio e sia una banalizzazione che permette a chiunque di “salire il gradino sociale verso la terapia”, ma quando si parla di “cura”, si sta trattando di qualcosa che considera l’uomo in un ambito molto più grande della settorializzazione e specializzazione spinta a cui stiamo assistendo; in questo senso una “cura” non può che essere olistica. La persona colpita da malattia non esprime esclusivamente danni fisiologici, ma presenta problemi che implicano un’analisi molto più profonda che toccano sia sfere spirituali che mentali. Certo, riconosco quanto sia difficile parlare di queste caratteristiche in una società affetta da analfabetismo funzionale e pesante materialismo, ma quando una persona che soffre, magari perché “diversamente abile”, riesce ad esprimersi in uno sport a lei adattato, non solo mantiene e conserva le qualità fisiologiche, ma addirittura ne migliora alcune ritenute insufficienti e riesce a percepire sé stessa come un valore aggiunto in una società che corre sempre ed ovunque. Interiormente, poi, si assiste ad un vero e proprio tsunami di emozioni e sentimenti che portano la persona e sentirsi “essere umano” e non “corpo su una sedia a rotelle”. E questa è una “cura”, è una “terapia” che diventa fondamentale perché quella vita possa esprimersi appieno e godere del proprio “mandato del cielo” come direbbero i cinesi. Se “cura” significa “Il complesso dei mezzi terapeutici e delle prescrizioni mediche relative a determinate malattie o a stati morbosi generali” come viene definita dal dizionario di medicina Treccani, si nota come “i mezzi terapeutici” siano un “complesso” teso alla cura e non una specifica azione eseguita da un determinato tipo di operatore.

Un vecchio adagio Taoista recita: “è inutile scavare un pozzo quando si ha sete” per indicare quanto sia difficile recuperare armonia quando nemmeno si è tentato di preservarla. La “cura”, pertanto, non agisce esclusivamente quando avviene la malattia con i suoi sintomi, ma si realizza (e dovrebbe avere la sua massima espressione) nel prevenire la malattia stessa.

Curare l’uomo implica il porre attenzione alle sue necessità vitali affinché il disgregamento degli equilibri, esteriori ed interiori, non avvenga; si cura l’uomo nella sua esigenza estetica (intesa come esperienza indotta dalla “sensibilità alla bellezza” che prevede una forte carica interiore ed emozionale che trova significato nell’armonia e nel senso di essere; una sorta di creazione dell’Arte del Sé), nella sua innata volontà e capacità di muoversi, nel suo ricercare il senso interiore di esistere e non meramente di sopravvivere. Si fa “terapia” quando si riscopre la natura, quando ci interconnettiamo con noi stessi e con la nostra capacità di muoversi e di esprimersi, riportando equilibrio non solo fisiologico, ma anche interiore.

Nella “cura”, le dimensioni della mente e dell’organismo non possono esser scisse perché avremmo la stessa pretesa delle due pulci che si contendono il cane su cui abitano: il cane scrolla il dorso e le pulci cadono miserevolmente. Ammesso che sia impossibile “sanitarizzare” a vita una persona, dobbiamo chiederci se la stessa, una volta uscita da quel percorso, non possa esser più “curata” (salvo il rimbalzarla di continuo da una struttura sanitaria all’altra).

A termine vorrei riportate quanto scrive Gioacchino Pagliaro nell’introduzione del suo interessante libro “Meditazioni in Oncologia” perché, con parole molto semplici ma dirette, ci riporta diritti al punto della deviazione del concetto di “cura” nella nostra società: “Le informazioni che interiorizziamo dai media sullo stile di vita, in alcuni casi mediate da sofisticate manipolazioni finalizzate al consumismo ed al controllo sociale, si trasformano in convinzioni e comportamenti percepiti come libere scelte. In realtà derivano da bisogni indotti e da inganni, che promettono salute, bellezza, felicità e successo. Si crea così un’immagine surreale della vita basata su un senso illusorio di felicità, che accresce insoddisfazione e inadeguatezza, che porteranno chi si ammala a percepire il tumore come una colpa […]”. 

 


 

martedì 23 maggio 2023

Ma alla fine: a cosa serve una laurea ?

Come ogni mattina, dopo un caffè rigenerante, leggo le notizie che il signor Google mi presenta nella sua sezione “News” e stamani, alla terza posizione, trovo questo titolo: “Mai così tanti abbandoni all’università, il 7,3% lascia”. La testata giornalistica “Il Sole24ore” presenta in questo modo una situazione drammatica del livello di istruzione e culturale del nostro paese; le motivazioni si leggono esplicitamente nel riassunto del sottotitolo: “Tra le cause la mancanza di orientamento e tutorato, un ambiente universitario che non sempre risulta così attrattivo, difficoltà economiche e la scarsa prospettiva lavorativa”.

Scorrendo l’articolo si apprende che, dati alla mano, l’Italia è al penultimo posto per numero di laureati in Europa e, sebbene non sorpreso, vado a leggere ciò che Eurostat (istituto di Statistica Europeo) scrive: “Gli Stati membri dell’Ue si sono posti l’obiettivo di aumentare al 45% entro il 2030 la quota di popolazione laureata” segnalando che a quella percentuale sono già arrivate Lussemburgo e Irlanda (che sono oltre il 60% di laureati nella fascia 25-34 anni), Cipro, Lituania, Paesi Bassi, Belgio (tutti e quattro oltre il 50%), Francia, Svezia, Danimarca, Spagna, Slovenia, Portogallo e Lettonia. L’Italia è al penultimo posto della classifica, con il 28% di giovani laureati, poco meglio della Romania (23%), e dopo l’Ungheria (33%). Ora, ammettendo che un paese come il Lussemburgo, che ha una popolazione 613.894 abitanti secondo una stima al 1 gennaio 2019 (l’Italia ne ha ben 58.850.717 secondo una stima al 31 dicembre 2022), sia oggettivamente più “avvantaggiato” nel gestire un piano universitario, i dati restano comunque sconfortanti.

Questo profilo, però, non deve far perdere l’idea che la nostra formazione non sia di qualità e lo è nonostante tutti i problemi più o meno gravi affliggano i nostri atenei. Sicuramente i problemi sono quelli elencati nell’articolo (mancanza di orientamento, di tutoraggio, ambiente “non attrattivo”, difficoltà economiche e scarsa prospettiva lavorativa), ma credo che questi temi vadano inseriti in un tessuto psicosociale ben più ampio.

L’indirizzo che la società persegue verso una progressiva de-culturizzazione ha iniziato i suoi passi in periodi alquanto remoti dove il consumismo pressante rendeva tutti sia prodotto da vendere che merce da acquistare, inducendo bisogni che non rispondevano alle necessità dell’uomo (sia esteriori che interiori).

È altrettanto ovvio che un paese fatto di analfabeti funzionali ed ignoranti è molto più semplice da controllare ed indirizzare (basta, come si suol dire, “parlare alla pancia” del popolo… magari affamato), ma quando si raggiunge un livello basso di istruzione e di cultura diffusa nel tessuto sociale, lo stesso tessuto si rompe, si sfilano le trame e si procede verso un grado più basso di civiltà.

Quali esempi abbiamo dato ai giovani che potrebbero iscriversi all’università ?

Quelli dove tanti posti in cui occorre una formazione accademica sono, in realtà, occupati da personaggi che possiedono la terza media od al massimo un diploma superiore (e del quale fanno vessillo di un presunto loro imperituro “sapere”) ? Dell’aforisma dell’ignorante per cui “oggi son tutti laureati e nessuno vuol più fare lavori umili” (magari quelli per cui vai a levare i pomodori dai campi per 2 euro l’ora in nero: si assiste all’esaltazione dell’illegalità e dello sfruttamento…) ? Dei soldi investiti a pro dei “soliti noti” e niente per la ricerca e lo sviluppo ? Dei concorsi, anche universitari, dove “deve passare tizio” e se c’è caio molto più preparato o titolato si cerca il modo di non farlo nemmeno arrivare all’orale ?

Un esempio tragico del mancato valore etico di questa società lo fornisce la vicenda del Ponte Morandi che crolla uccidendo persone e, notizia di questa mattina, del manager del gruppo Autostrade per l’Italia che, durante l’interrogazione in Tribunale, ammette: “Emerse che il Ponte aveva un difetto originario di progettazione e che era a rischio crollo. Chiesi se ci fosse qualcuno che certificasse la sicurezza e Riccardo Mollo (direttore generale di Aspi) mi rispose ‘Ce la autocertifichiamo’. Quella risposta mi terrorizzò... Castellucci (ex amministratore delegato di Autostrade per l'Italia), era presente e non disse nulla... Era un accentratore forsennato, si occupava di ogni dettaglio. Non dissi nulla. Era semplice: o si chiudeva o te lo certificava un esterno. Non ho fatto nulla, ed è il mio grande rammarico”. Sono morte 43 persone e lui si mostra “rammaricato”. Ma d’altronde se non avesse taciuto avrebbe perso il posto di lavoro…Evidente 43 vite non valevano il posto di lavoro di costui.

Qui siamo di fronte, ovviamente, all’apogeo della delinquenza e della crudeltà, ma se riflettiamo un po' notiamo come tutto questo si sia sviluppato in ben 8 anni: nel 2010 avvenne la riunione riportata sopra e nel 2018 il ponte crollò. In otto anni tutti sapevano e nessuno muoveva un dito pur di guadagnare. Questi sono gli esempi che dovrebbero muovere un giovane verso una laurea ?

A che serve una laurea in un paese come questo ? Indubbiamente ad una crescita interiore per una propria realizzazione di sé, ma, ahimé, non basta ! A volte, anzi, può anche portar frustrazione.

Ultimamente frequento un corso di massaggio orientale che risponde a dei canoni relativi alla Medicina Cinese e, ovviamente, il tutto si distacca da ciò che di scientifico conosciamo con cui, anzi, condivide poco se non nulla. Sebbene sia molto affascinante questa visione (e molto utile alla salute di tutti noi), ho assistito a più riprese a delle affermazioni che fanno, a dir poco, “accapponare la pelle”. Il bello di tutto questo è che tali asserzioni non erano state fatte dagli insegnanti, ma dagli studenti ! Al di là delle varie affermazioni per cui la medicina ufficiale era inutile se non dannosa, ho sentito (ed appreso) che in realtà io derivo da una popolazione aliena, che Darwin era un imbecille ed altre cretinerie che nemmeno ricordo più ma che, in quel momento, mi spingevano ad andarmene a gambe levate. Insomma, ho assistito a delle lezioni di insegnanti preparati e molto consapevoli di ciò che stavano insegnando ed a dei discenti che cercavano, affannosamente, di rimediare al loro analfabetismo funzionale con elementi New Age tratti qua e là. Ovviamente non tutti gli studenti erano “olistici” in quel modo, ma serpeggiava tra i banchi quello strano senso di stara mistura esistenziale che è tipica di chi nemmeno sa cosa fa nella vita.

Questo mi porta a pensare che tali distorsioni (nocive a tutto e tutti: Medicina Integrata compresa) sono il frutto di una società con una cultura carente e, per lo più, mass-mediatizzata che studia poco e legge anche meno ma “pratica” tanto, copiando qua e là senza aver coscienza di ciò che si fa.

Ma alla fine: a cosa serve una laurea ? 

 


 

venerdì 24 febbraio 2023

La "quieta disperazione"

Molti uomini hanno vita di quieta disperazione: non vi rassegnate a questo, ribellatevi, non affogatevi nella pigrizia mentale, guardatevi intorno. Osate cambiare, cercate nuove strade” (H.D. Thoreau)

 La frase in apertura è alquanto citata (credo che in molti si ricordino la magistrale interpretazione di Robin Williams nel film “L’attimo fuggente”) e, sebbene appaia ormai come “aforisma” disponibile in un qualsiasi sito internet dedicato, descrive un’amara realtà.

La “quieta disperazione” che attanaglia il cuore di molti è, in verità, un segnale di stagnazione dal quale non si riesce a sfuggire, una sorta di “sabbie mobili” dell’anima prima e dello spirito poi che lega l’esistenza al palo delle consuetudini, al cancello delle opportunità che non si aprirà mai se non riusciamo a rompere quel legame infame.

Questa afflizione può raggiungere livelli impensabili, incidendo nell’essere quella malsana sensazione di inutilità, di “tempo sprecato”, di senso perduto che può anche condurre verso pensieri molto pericolosi tanto da considerare la propria vita come priva di una qualsiasi autenticità. Se è vero, come ormai spesso si sente dire, che le “crisi” implicano occasioni di cambiamento e nuovi orizzonti da attraversare, è altrettanto reale che per comprendere ciò occorre affrontare e superare quella palude.

Ribellarsi, spesso, non è dote comune e non tutti riescono ad avere quel moto interiore che porta al cambiamento necessario, soprattutto quando per molto tempo si affonda nello stagno dell’immobilità interiore.

Sempre Thoreau scrisse: “pensate a quelle signore che si preparano all'ultimo giorno della loro vita tessendo cuscini da toilette per tema di tradire un interesse troppo vivo nel loro destino: quasi si potesse uccidere il tempo senza ferire l'eternità” ed è proprio quella comprensione del tempo che ci tiene incatenati come bestie senza futuro. Non si può uccidere il tempo senza ferire l’eternità, ossia: in questa particella di eterno noi siamo solo un batter di ciglio e non possiamo fare a meno di ragionare della fine trascurando (o, forse, non ricordando) l’inizio.

La “quieta disperazione” fa mancare il fiato, uccide il tempo che abbiamo a disposizione e, conseguentemente, distrugge il senso di eterno, mettendoci totalmente a disagio con noi stessi ed impedendo l’ascolto interiore di ciò che indica il cambiamento opportuno.

Se è vero, come molte Tradizioni indicano, che alla fin fine noi siamo in perenne cambiamento, in un costante mutamento delle nostre condizioni che variano indelebilmente da un minuto all’altro, allora non possiamo far altro che accettare la nostra caratteristica di “impermanenza” che non si riferisce esclusivamente alla durata della nostra vita, ma anche alle cose che la caratterizzano, al passare delle esperienze che ci portano (o ci indicano) quel “destino  che tanto bramiamo, ma che stando legati al palo, non riusciamo a raggiungere.

Il “guardarsi intorno” diviene, in questo caso, di per sé un atto di ribellione perché ci affranchiamo da una sorta di “visione unica” che indica la ciotola del mangime di fronte a noi, bestie legate, ed impedisce la vista di un orizzonte inaspettato che può risollevare le sorti dalla stagnazione. È una visione nuova, priva di giudizio, quella che spezza le catene; è una consapevolezza di essere ed esistere che rende “un po' più liberi” e che permette la salvifica scelta del cambiamento.

Se basiamo la nostra vita (e vitalità) agli stereotipi del giudizio e della banale classificazione, non cambieremo mai strada, ma sceglieremo sempre quella più “battuta” e spesso non da noi stessi, ma da altri. Non comprendiamo che ciò che va bene ad altri, può non essere utile per noi ed è in tal modo che leggiamo un libro senza sviluppare il nostro pensiero, la nostra capacità individuale di esser unici. È così che ci sacrifichiamo sull’altare della banalità e della mediocrità, motori primari della “quieta disperazione” che diviene, in tal modo, una sorta di “disperazione istituzionalizzata”.

La percepiamo (o la vogliamo percepire) un po' ovunque e ne cerchiamo i segni che la possano rafforzare perché, scegliendo la “pigrizia mentale” (che si traduce poi anche in una “pigrizia fisica”), abbiamo imboccato la via ritenuta più semplice che porta alla rassegnazione.

Non si può accettare la rassegnazione, non si può che cambiare, osare… cercare nuove strade. 

 

L'attimo fuggente»: trent'anni fa usciva uno dei cult più amati da pubblico  e critica - Open