“Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte” recitava un passo dell’antico testo del giuramento di Ippocrate. Egli riteneva la capacità di lenire i dolori dell’uomo come i risultati di un’arte: l’Arte Medica. Molto probabilmente Ippocrate non voleva indicare delle “qualità morali” (valore forse assunto in epoca cristiana più tardiva), ma indicare dei principi dove la cura era il successo della corretta applicazione dell’arte, dove ciò che di scientifico e sperimentale si poteva ottenere viaggiava di pari passo alla sensibilità ed interiorità umana.
Conviene allora chiedersi quale sia il significato, il vero senso della “cura”.
In un mondo dove il titolo accademico assurge ad onore e non ad onere, l’esser “dottori” appare più uno status sociale che un impegno “ad esercitare l’arte”. Ci si rivolge, così, esclusivamente al lato materiale della questione, evitando qualsiasi altro coinvolgimento che superi la materia ed entri in dimensioni che, pur appartenendo all’uomo, risultano difficili sia da comprendere che da affrontare poiché occorre qualcosa che abbiamo da tempo rinnegato: il cuore e la sua sensibilità.
Vi è un grandissimo dibattimento sull’uso della parola “terapia” che è stata blindata solo nel contesto sanitario e solo chi è in tale ambito (spesso medici) è autorizzato al suo impiego; la stessa parola applicata ad altri ambiti (si pensi a “psico-terapia”) spesso viene banalizzata e considerata meno degna della sua applicazione squisitamente clinica perché, erroneamente, si pensa che quest’ultima sia frutto di una scientificità che non ammette contraddizioni.
Quindi, ad esempio, il fare ginnastica in una palestra non può essere “momento terapeutico” semplicemente perché effettuato da personale non sanitario, mentre chi esegue la medesima ginnastica in una sorta di ambulatorio (quindi in ambito sanitario) può avvalersi del termine (sempre che sia una figura professionale formata e legata a quell’ambiente). Non stiamo parlando di “manovre” condotte passivamente da un operatore sulla persona afflitta da dolore (per le quali occorre una preparazione teorico-pratica molto particolare), ma di movimento umano attivo e razionale, di esercizio fisico che, quasi con un indirizzo inventato ad hoc, diviene “esercizio terapeutico” che, se bene analizziamo a fondo ciò che viene proposto di quest’ultimo, non si trova una reale distinzione da quello eseguito in forma controllata e adattata in una palestra.
Si percepisce, cioè, che sia più onorevole (e socialmente si appare più “rilevanti”) indossare un camice bianco rispetto ad una tuta sportiva, dimenticando che il camice bianco, come usa dire un mio carissimo amico, lo indossa anche il macellaio.
In questa via confusa e tortuosa, non si comprende se l’osteopata possa o meno eseguir “terapia” così come un massaggiatore formato in uno dei tanti corsi dove non si richiede titolo universitario alcuno. Non disquisisco se ciò sia giusto o sbagliato (ho una mia personale opinione in merito, ma è ininfluente ai fini della discussione), ma voglio solo analizzare una visione piuttosto ristretta della “cura”. L’escamotage trovato per ovviare la questione è il classico tappo della falla: si parla di benessere e di trattamento, ma, per l’amor del cielo, evitiamo terapia !
Il lettore perdoni questa mia breve divagazione, ma credo sia utile per inquadrare la questione.
Nel caso dell’attività fisica, con molta probabilità, il tutto nasce da corsi di studio inadeguati e settoriali che mal rispecchiano l’obiettivo da raggiungere e con insegnamenti che non possono esser applicati nell’ambito di un’attività convenzionale stabilita da una società così classificante; inutile parlare di “elementi di riabilitazione”, “medicina fisica e riabilitazione” o “diagnostica per immagini” ad uno studente di scienze motorie se poi, nella realtà professionale, non potrà mai applicare tali concetti, così come non vi è nota di un’analisi della ginnastica (sia adattata che sportiva) negli studi di uno studente di fisioterapia il quale, spesso inutilmente e barcollando, si lancia nel settore (cercando, giustamente, un guadagno dignitoso). Nella società così strutturata, pertanto, il camice bianco ha valore ed esprime sicurezza, il resto del mondo che opera nel “benessere” ha più o meno la considerazione di un circense (che peraltro ammiro profondamente).
Il concetto di “cura”, però, ha radici molto più profonde e complesse di quanto si possa pensare e di ciò che la nostra società così frammentata sia nella mente che nelle competenze possa esprimere. Pensare che il termine “benessere” non appartenga alla “cura” è follia, così come è un atto di pazzia pensare di essere i soli a detenere il termine “terapia”. Se la “terapia” è somministrabile esclusivamente dalla classe medica od affine, quindi da coloro che acquisiscono la capacità professionale grazie a studi della “scuola di medicina”, è bene togliere da tale dipartimento le scienze motorie; inoltre, dato che pure la psicologia esegue “terapia”, ma non fa parte della scuola di medicina, sarebbe bene far chiarezza ulteriore sulla questione. Oppure, implicitamente, si ammette che una terapia è migliore (più efficace) dell’altra ?
Il caos, come si può notare, è evidente. La “cura”, però, è un concetto estremamente ampio che vede la propria definizione mal ristretta tra confini convenzionali tirati su spesso a scopo utilitaristico.
Nell’antica Cina, un medico che aveva molti malati non veniva pagato perché il suo compito era prevenire la malattia, indicando i giusti comportamenti da seguire, la corretta alimentazione ed avvalendosi di pratiche di igiene sia fisico che interiore. In quei tempi vi era una serie di pratiche fisico-meditative chiamate YangSheng (nutrire/coltivare la vita/principio vitale) che venivano inserite nella “terapia” che era indicata dal medico stesso, avvalendosi di esperti nel settore.
Non sto scrivendo che quella medicina sia migliore di altre (occidentale compresa), ma sto indicando un modo in cui la “cura” si esprime.
Non amo molto il termine “olistico” perché credo che sia utilizzato spesso in modo improprio e sia una banalizzazione che permette a chiunque di “salire il gradino sociale verso la terapia”, ma quando si parla di “cura”, si sta trattando di qualcosa che considera l’uomo in un ambito molto più grande della settorializzazione e specializzazione spinta a cui stiamo assistendo; in questo senso una “cura” non può che essere olistica. La persona colpita da malattia non esprime esclusivamente danni fisiologici, ma presenta problemi che implicano un’analisi molto più profonda che toccano sia sfere spirituali che mentali. Certo, riconosco quanto sia difficile parlare di queste caratteristiche in una società affetta da analfabetismo funzionale e pesante materialismo, ma quando una persona che soffre, magari perché “diversamente abile”, riesce ad esprimersi in uno sport a lei adattato, non solo mantiene e conserva le qualità fisiologiche, ma addirittura ne migliora alcune ritenute insufficienti e riesce a percepire sé stessa come un valore aggiunto in una società che corre sempre ed ovunque. Interiormente, poi, si assiste ad un vero e proprio tsunami di emozioni e sentimenti che portano la persona e sentirsi “essere umano” e non “corpo su una sedia a rotelle”. E questa è una “cura”, è una “terapia” che diventa fondamentale perché quella vita possa esprimersi appieno e godere del proprio “mandato del cielo” come direbbero i cinesi. Se “cura” significa “Il complesso dei mezzi terapeutici e delle prescrizioni mediche relative a determinate malattie o a stati morbosi generali” come viene definita dal dizionario di medicina Treccani, si nota come “i mezzi terapeutici” siano un “complesso” teso alla cura e non una specifica azione eseguita da un determinato tipo di operatore.
Un vecchio adagio Taoista recita: “è inutile scavare un pozzo quando si ha sete” per indicare quanto sia difficile recuperare armonia quando nemmeno si è tentato di preservarla. La “cura”, pertanto, non agisce esclusivamente quando avviene la malattia con i suoi sintomi, ma si realizza (e dovrebbe avere la sua massima espressione) nel prevenire la malattia stessa.
Curare l’uomo implica il porre attenzione alle sue necessità vitali affinché il disgregamento degli equilibri, esteriori ed interiori, non avvenga; si cura l’uomo nella sua esigenza estetica (intesa come esperienza indotta dalla “sensibilità alla bellezza” che prevede una forte carica interiore ed emozionale che trova significato nell’armonia e nel senso di essere; una sorta di creazione dell’Arte del Sé), nella sua innata volontà e capacità di muoversi, nel suo ricercare il senso interiore di esistere e non meramente di sopravvivere. Si fa “terapia” quando si riscopre la natura, quando ci interconnettiamo con noi stessi e con la nostra capacità di muoversi e di esprimersi, riportando equilibrio non solo fisiologico, ma anche interiore.
Nella “cura”, le dimensioni della mente e dell’organismo non possono esser scisse perché avremmo la stessa pretesa delle due pulci che si contendono il cane su cui abitano: il cane scrolla il dorso e le pulci cadono miserevolmente. Ammesso che sia impossibile “sanitarizzare” a vita una persona, dobbiamo chiederci se la stessa, una volta uscita da quel percorso, non possa esser più “curata” (salvo il rimbalzarla di continuo da una struttura sanitaria all’altra).
A termine vorrei riportate quanto scrive Gioacchino Pagliaro nell’introduzione del suo interessante libro “Meditazioni in Oncologia” perché, con parole molto semplici ma dirette, ci riporta diritti al punto della deviazione del concetto di “cura” nella nostra società: “Le informazioni che interiorizziamo dai media sullo stile di vita, in alcuni casi mediate da sofisticate manipolazioni finalizzate al consumismo ed al controllo sociale, si trasformano in convinzioni e comportamenti percepiti come libere scelte. In realtà derivano da bisogni indotti e da inganni, che promettono salute, bellezza, felicità e successo. Si crea così un’immagine surreale della vita basata su un senso illusorio di felicità, che accresce insoddisfazione e inadeguatezza, che porteranno chi si ammala a percepire il tumore come una colpa […]”.